La mia storia comincia un pomeriggio di dicembre di sei anni fa. La mia vita cambia improvvisamente. Una telefonata che non avrei voluto ricevere: mio marito che lavora a Roma ha avuto un infarto. Elaboro piano piano quello che è successo e comincio a tremare intensamente. Ricordo i viaggi verso Roma e la paura costante per l'intervento imminente. Una mattina mi sveglio presto per andare a Roma e, mentre mi pettino, sento dei formicolii al braccio destro. “Mah” - mi dico – “chissà perché”. I giorni passano e il formicolio si estende al viso e a tutta la parte destra, il mio braccio non ha più forza e la mia mano non è più in grado di scrivere e mantenere oggetti. Sono perplessa, ma mi dico che probabilmente è il tunnel carpale che mi dà noia. Quando mio marito ritorna a casa, i miei fastidi continuano. Prendo appuntamento con una neurologa e ringrazio mentalmente mio marito per il supporto dato visto le sue condizioni. Arrivo alla diagnosi grazie alla bravura della dottoressa, che subito mi ha indirizzata agli esami da fare. La notizia mi arriva una mattina di febbraio: nella mia mente si susseguono immagini di me stessa incapace di camminare, incapace di accompagnare il proprio bimbo di due anni all'asilo, incapace di essere autonoma. Vengono giorni di pianto e paura, giorni passati a spulciare su Internet per saperne sempre più sulla malattia. Poi, non so precisamente quando, piano piano la paura si è traformata in speranza. Speranza che la malattia sia lenta, che faccia crescere quel figlio piccolo con una mamma che può fare tutto. Oggi continuo ad avere speranza. Ci sono giorni in cui lei è molto presente nel mio corpo e nei miei pensieri, ma finché non arriva l'irreparabile io mi convinco che starò bene ancora per molto. Non credo di essere ingenua, la mia è una forma di difesa che mi permette di andare avanti, finché Dio vorrà.