Dopo la diagnosi di SM, appena diciottenne, a lungo rimbombarono nella mia mente le parole "malattia neurodegenerativa" insieme alla difficoltà ad accettare l'inarrestabilità della malattia e il fatto che non avrei potuto sapere nè quando nè come sarebbe tornata a farsi sentire. Proprio quando quelle sensazioni iniziarono a sovrastarmi, decisi di mettere da parte il mio orgoglio e accettare di avere bisogno d'aiuto. Mi rivolsi, allora, a una psicoterapeuta, ai miei amici e alla mia famiglia. Stupidamente avevo sempre tenuto per me la mia sofferenza, temendo che, davanti a quel dolore, le persone a cui tenevo avrebbero preso le distanze. Ciò che invece scoprii fu la meraviglia della solidarietà tra esseri umani. Rivelarmi nella mia fragilità permise loro di sentirsi liberi di fare lo stesso, facendomi capire quanto in realtà tutti avessero un mostro con cui combattere, ma che farlo insieme avrebbe reso la battaglia meno ardua. Proprio in questo modo, trovai l'amore della mia vita: anche lui lottava con coraggio contro la sua malattia, ma insieme ci demmo la forza di rinascere dalle nostre ceneri. Col tempo capii che quell'incertezza che caratterizzava la SM era, in realtà, una ricchezza. Proprio perchè del futuro non c'è certezza, decisi che avrei vissuto a pieno il mio presente, senza rimpianti nè rimorsi. Avrei dato un senso a ogni singolo giorno, rendendo la mia vita così ricca che al pensiero di doverla rivivere l'avrei rivissuta esattamente così.